Mi sveglio alle 6.00 e dopo un lungo viaggio per una città bloccata,
mentre sfilano le auto blu e quelle diplomatiche dei capi di stato, riconosco
le bandierine sul cofano di Bosnia e di Australia, arrivo alle 8.00 in sala
stampa.
In realtà i fedeli accorsi non sono moltissimi, la piazza ha spazi vuoti
e in via della Conciliazione stazionano pochi fedeli.
Ieri Francesco ha intanto sancito che non è e mai sarà papa o pontefice
massimo. È un fatto meravigliosamente incredibile, il papato è finito, morto e
sepolto. Anche io d’ora in poi lo chiamerò vescovo. Infatti, facendo schiumare
rabbia ai conservatori, agli integralisti, di cui il solito gruppetto di
giornalisti che qui mi guarda in cagnesco sono un buon termometro, ha deciso di
non farsi “intronizzare”, né di celebrare l’inizio del regno. Sul regno ha
tagliato corto, l’unico re è Gesù cristo. La cerimonia di oggi si chiama allora
“Inizio del ministero petrino del vescovo di Roma”, è passata una settimana e
mai Francesco ha detto, sono il papa, sono il pontefice. È il colpo d’accetta
all’idea del potere temporale meglio assestato da sempre.
Incurante delle critiche, ha poi confermato il suo stemma di vescovo,
che richiama il simbolo dei gesuiti, come stemma da vescovo di Roma e
proseguito nel solco di Ratzinger rifiutando di mettere la tiara al di sopra
dello stemma, ma lasciando la mitria vescovile. Padre Lombardi nella conferenza
stampa di ieri ha cercato di far passare in secondo piano questi aspetti
esaltando gli altri simboli che compongano nell’insieme la sacra famiglia, rappresentando
san Giuseppe e Maria, ma le novità importanti sono quelle che ho segnalato.
Ieri il vescovo Francesco ha incontrato la presidentessa argentina
Cristina Fernanda Khirchner, che ha portato a Francesco tutto il necessario per
farsi il mate, il vescovo contento l’ha baciata. I due sembrano rappacificati,
in ragione del nuovo ruolo istituzionale di Bergoglio. La presidentessa,
cavalcando i sentimenti che già avevano fatto esprimere l’arcivescovo di Beunos
Aires a favore dell’argentinità delle Malvinas/Falkland, ha ribadito il suo
desiderio che il vescovo di Roma possa intercedere con gli inglesi in merito.
Che il papato non esista più e non sia un’idea solo mia, mi è confermata
dal vaticanista della stampa Michele Brambilla, che sottolinea come una
settimana fa si sia tenuta una messa per l’elezione del sommo pontefice e oggi
ci si ritrovi a festeggiare l’inizio del ministero petrino di un vescovo,
quello di Roma. Brambilla aggiunge, a ragione, che tutto scaturisce dall’idea
ratzingeriana di un papato come mandato a tempo nella collegialità dei vescovi,
idea che il pastore tedesco aveva formulato nel Concilio Vaticano II, bocciata
allora da Paolo VI. Per altro oggi il vescovo Francesco concelebra insieme a
tutti i patriarchi cattolici di rito orientale, patriarchi che reputa suoi pari,
per rendere l’idea vale la pena elencare le loro titolarità: Alessandria dei
Copti, Antiochia dei Greco-melkiti, Antiochia dei Siri, Cilicia degli Armeni,
Babilonia dei Caldei, oltreché il patriarca greco – cattolico d’Ucraina e il patriarca
latino di Gerusalemme Fuad Twal con il quale mi sono intrattenuto nel dicembre
2009 presso la sacrestia del patriarcato mentre una suora bergamasca da tempo
in Terra Santa ripiegava i paramenti sacri indossati dal patriarca per la
novena natalizia. Twal mi ha raccontato della sua visita pastorale a Gaza di quella
giornata, dei problemi del muro edificato dagli israeliani, dell’enorme
sofferenza del popolo palestinese, della buona salute del patriarca Michael
Sabbah, che anni prima mi aveva insegnato:”se sei in difficoltà, cerca qualcuno
più in difficoltà di te e aiutalo”.
Le madri e le nonne della plaza de Mayo non sono state invitate dal
vescovo Francesco e questo mi dispiace. Quelle donne eccezionali hanno chiarito
in ogni caso che il ruolo di Bergoglio nei tempi sanguinari della dittatura
militare e fascista è stato quello, grave, di tacere, non una compromissione diretta
come per sacerdoti come Grasselli o vescovi come Pio Laghi. Pare tuttavia che
il primo beato proclamato da Francesco sarà Carlos Murias, frate francescano
ucciso da Videla e dai suoi scherani all’inizio dei suoi anni di terrore nel
1976.
Nell’omelia Francesco insiste sull’impegno a custodire il mondo, il
creato, a promuovere bontà e tenerezza contro odio, invidia e superbia, per fan
vincere l’amore.
Dopo una sfogliatella con la marmellata salgo sul braccio di Carlo Magno,
con me sul sempre precario ascensore, che poi è un montacarichi, tre sacerdoti
che portano la comunione ai giornalisti cattolici. Il sole finalmente è caldo,
sebbene nuvole svolazzino qua e là, la ressa è enorme perché ci sono anche i
giornalisti e i video-operatori al seguito dei 132 capi di stato o dei loro
rappresentanti, a cui si aggiungono quelli delle comunità religiose ortodosse,
luterane e musulmane. Incontro i giornalisti dello Zimbabwe e sono reciproci e calorosi
abbracci. Dichiaro loro la mia piena solidarietà alla loro nazione, al loro
popolo e al presidente Robert Mugabe, che ha combattuto contro il colonialismo
e l’imperialismo e ancora oggi difende un’idea di mondo non unipolare, contrastando in patria i latifondisti bianchi
che vorrebbero riprendere il sopravvento.
Termina la messa e, poco dopo la benedizione del vescovo Francesco, le
colossali campane della basilica prendono a suonare con la robusta musicalità che
oramai mi è divenuta familiare, trovandomi sempre a pochi metri dalle stesse in
questi giorni di intensi scampanii.
Scendendo dal braccio di Carlo Magno, mi ritrovo proprio davanti al
neosenatore Pierferdinando Casini che parla fitto col presidente dell’INPS
Mastropasqua, che tiene stretto a sé sotto braccio, più dietro l’incerto
filosofo ed ex parlamentare Buttiglione confabula con alcuni prelati. Arriva il
cardinale di Napoli Crescenzio Sepe, lo saluto dicendogli che settimana
prossima sarò dalle sue parti, a Castellammare di Stabia, sorride e mi rivolge
parole gentili.
Passano molte automobili diplomatiche con tanto di bandierine, saluto un
prelato camerunense, poi mi dirigo in sala stampa dove le immagini degli
schermi rimandano i saluti del papa ai capi di stato. Entro proprio quando il
grande bolivarista ecuadoregno Rafael Correa si intrattiene col vescovo, tra
loro molte parole e larghi sorrisi, Francesco poi si inchina di fronte a uno
sceicco sunnita e si intrattiene con il presidente socialdemocratico del
parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, persona di squisita gentilezza,
come ho potuto constate di persona incontrandolo a Bruxelles qualche anno fa.
Alcuni, come Felipe di Spagna e consorte, si gettano a terra in vistose
genuflessioni, ma non si rendono conto che il papa re non esiste più, è rimasto
solo un vescovo.
Francesco ha espressioni di fraternità manifesta anche per altri
esponenti della mondo islamico, un magrebino e un esponente mediorientale.
Calorosissimo lo scambio di saluti e la conversazione con il ministro degli esteri
della Repubblica Islamica d’Iran Alì Akbar Salehi e con l’ayatollah Naseri, già
ambasciatore presso la Santa Sede e oggi deputato al parlamento iraniano, il
Majlis di Teheran.
Nel rigido protocollo che prevede un ordine preciso per il saluto al
nuovo vescovo i due vicepresidenti cubano e statunitense sono inseriti tra i
capi di governo, con un gesto di evidente simpatia per entrambe le nazioni da
parte della segreteria di stato vaticana. Succede così che il cattolico John
Biden e l’altrettanto cattolica Nancy Pelosi si trovino vicini a Miguel Mario
Diaz Canel Bermudez, indicato recentemente da Raul Castro come futura guida
dell’isola
caraibica e socialista.
In piazza tante bandiere di tutto il mondo per festeggiare il vescovo di
Roma, pastore universale, certamente, ma con oggi definitivamente dimissionario
dal ruolo di papa supremo e infallibile. Il papato è finito, arriverà la
collegialità. Francesco ha chiuso una storia che, almeno negli ultimi secoli,
ha avuto una traiettoria molto chiara, nutritasi di potere spirituale e
temporale congiuntosi dentro una presunta indiscutibilità delle prese di
posizione del vescovo di Roma, trasformato in sommo pontefice. Finalmente il sommo
pontefice non c’è più. Qualcuno potrà ancora gridare “viva il papa!”, ma sarà
sempre più difficile utilizzare la parola “papa”, soprattutto se chi dovrebbe
impersonarla la rifiuta. Forse non tutti hanno colto la portata storica di
quanto è accaduto in queste ore, io ed altri lo avevamo intuito, ma la messa
mattutina ne ha sancito un irrevocabile dismissione senza possibilità di
ritorno.
Qui, in questa strana e piccola nazione, oggi più chiaro che mai, esiste
solo il vescovo Francesco, singolare capo di stato che si è buttato
definitivamente alle spalle una storia per dar vita a un nuovo inizio.
Davide Rossi
19 marzo ’13, ore 14.00
Giorno della fine del papato nella festività vaticana di san Giuseppe
Sala stampa Santa Sede – Aula Paolo VI
19 marzo ’13, ore 14.00
Giorno della fine del papato nella festività vaticana di san Giuseppe
Sala stampa Santa Sede – Aula Paolo VI
Pre-pubblicazione, Mimesis Edizioni (Aprile 2013)